Dopo la legge sull’incameramento dei beni della Chiesa, molti oggetti sacri furono svenduti, fra questi anche due preziosi calici rischiarono di fare la stessa fine.
Un giorno del 1910, un sacerdote incontrò lungo il corso un orefice con una valigia che sembrava pesantuccia. Il sacerdote gli domandò cosa portasse con sé e l’orefice rispose che conteneva “roba di Chiesa”. Apertala un po’, il prete notò subito un calice d’oro, chiese all’orefice di tirarlo fuori ma questi si rifiutò obiettando che avrebbe preferito farlo in un ambiente chiuso. Così i due si diressero al Caffè Sicilia, di proprietà del signor Alfonso Finocchiaro. Appena entrati nel retrobottega, l’orafo aprì la valigia e tirò fuori il calice che depose su un tavolo. Era un’opera di pregiata fattura d’oro massiccio. Sulla base poggiavano i piedi di due angeli, che reggevano ognuno con una mano la coppa. Con l’altra mano uno portava tra due dita un grappolo d’uva, l’altro rovesciato sul braccio un fascio di spighe. Il grappolo d’uva era di rubini, le spighe di brillanti.
Il sacerdote rivolte all’orefice diverse domande, seppe che il calice era in vendita ed il prezzo stabilito era di 12000 lire che l’orefice non aveva ancora pagato. Il sacerdote che fino a quel momento aveva ostentato un comportamento disinvolto, fattosi serio disse che riteneva fosse doveroso informare il vescovo. Contemporaneamente mise le mani sul calice. Lo fecero pure Finocchiaro e i suoi quattro collaboratori, così saldamente che l’orefice si convinse a recarsi dal vescovo. Quando furono arrivati nell’episcopio il sacerdote prese la valigia ed entrò nella stanza del vescovo Mons. Blandini, mentre l’orefice rimaneva nell’anticamera.
Tirato fuori il calice lo depose sulla scrivania al cospetto del prelato. Il vescovo che di esso ignorava perfino l’esistenza volle saperne la provenienza e il prezzo. Saputo che non era ancora stato pagato, rivoltosi al sacerdote gli disse che lo avrebbe trattenuto e gli diede 50 lire da consegnare all’orefice. Quest’ultimo adirato, gettò a terra il denaro, offese il vescovo e gridando, minacciò di entrare e di portare via l’oggetto prezioso. Intanto quel frastuono aveva attirato l’attenzione dei sacerdoti e dei seminaristi che accorsero. La stanza presto si riempì di gente e l’orefice capì che un colpo di mano non era nemmeno da tentare, quindi, raccolte le 50 lire, se ne andò mogio mogio.
Il vescovo scrisse a Paolo Orsi, direttore del Museo di Siracusa, pregandolo di recarsi da lui. Quando alcuni giorni dopo i due si incontrarono, il vescovo gli mostrò il calice chiedendogli un parere. Il direttore confermò il valore dell’oggetto che risaliva al 700’ valutandolo sessantamila lire. Così il calice venne acquisito nel tesoro della Cattedrale.
Restando in tema di calici, un giorno Monsignor Vizzini ne vide uno poggiato sul pavimento della sagrestia della Cattedrale. Sorpreso, chiese al parroco spiegazioni ed egli rispose che non avendo alcun valore, lo teneva a portata di mano allo scopo di venderlo alla prima occasione. Il vescovo, poco convinto, mandò il proprio cameriere dal parroco per farselo consegnare. Una volta nelle sue mani, così come aveva fatto il suo predecessore per il calice d’oro, contattò il direttore Orsi che si recò a Noto. Grande fu la sorpresa quando lo studioso gli comunicò che era un manufatto molto pregiato, con la base di bronzo ma la coppa costituita da un grosso blocco di quarzo. Anch’esso appartiene oggi al tesoro della Cattedrale di Noto.
FONTE: Cosette di storie Netine del Dottor Corrado Coppa.
“La conoscenza non genera errori, l’ignoranza quasi sempre” da Aforismi di Vincenzo Arancio.
Enza Oddo